La Tartaruga

 
Tratte dal libro ” OMAGGIO A MARCIANA MARINA” cronache di vita paesana
raccontate da Enzo Lazzeri
edito in occasione del centenario del comune (1884-1984)
 
Pumata è il soprannome di Elbano che ha un figliolo, Nino, regolarmente battezzato a suo tempo in Santa Chiara ma, siccome è figlio di tanto padre, tutti lo chiamano Pumatíno. Quello celebre però è Elbano cioè il Pumata: per i suoi tatuaggi che gli coprono una larga porzione di epidermide e per le sue prodezze gastronomiche nella cottura di prodotti marini.
Ecco perché, quando una tartaruga incocciò nei palamiti di Giovanni Feola detto Chiaravalle (Ponzese trapiantato a Marciana Marina), venne dato l’incarico ad Elbano di cucinarla a regola d’arte.
Intanto anche Cesarino Baroni aveva arpionato un polpo con una chiorba che pareva un tubino e quindi fu sempre il Pumata che venne incaricato di renderlo piacevolmente commestibile.
Di queste gravi incombenze il Pumata venne responsabilizzato da Piero Martini che, come altre volte, mise a disposizione del celebre cuoco il suo magazzino.
Questo magazzino è vicino alla Marinellina e quindi Francesco pensò ai tegami, agli ingredienti (specialmente lo zenzero!) e all’abbigliamento di Pumata che dopo l’operazione, lui nero nero, sembrava fatto di panna montata: bianco da capo a piedi, fasciato di candidi lini e con in testa un cappellone da chef di cucina che lo faceva apparire quasi alto: lo potevi sbagliare col monumento al cuoco di Marina.
Il fatto è che verso le 18,30 il Piero Martíni cominciò a girare il paese per convocare gli invitati. Il cronista era lì, buono buono al bar « La Perla », a chiacchíe­rare d’acqua (badate bene, d’acqua!) con Angiolino Paolini che è l’ispettore della distribuzione idrica comunale e con Ugo Segniní, il suo amico cantoniere, quando con gli altri fu sollecitato all’assaggio di quanto il Pumata stava finendo di allestire.
Il magazzino di Piero Martini è un incrocio.
E’, un incrocio fra un’enoteca ed un locale di attrezzatura da pesca. Sugli scaffali si alternano cestoni pieni di palamiti, lenze, galleggianti e via discorrendo con accanto sfilate di bottiglioni di vino di prima qualità, allineati come i soldati per la festa dello Statuto che poi sarebbe quella della Repubblica.
Quattro giorni or sono ne vennero travasati 90 di un bianco particolare. Ne sono rimasti venti.
Chi conosce le cose assicura che in questo locale l’acqua viene adoperata soltanto per sciacquare i recipienti che devono poi contenere il vino. Sono uomini al silicone: sono ídrorepellenti.
Sopportano l’acqua di mare perché contiene pesce ma se nostro Signore il mare l’avesse fatto di vino sarebbero sempre in adorazione e forse, a quest’ora, innalzati da vivi alla Gloria degli altari. Il Padre Eterno ha perso un’occasione.
Erano già in parecchi ad aspettare che la tartaruga tagliasse il filo di lana del traguardo della perfetta cottura. La tartaruga è lenta anche in tegame.
Nell’attesa, i bicchieri giravano con ufi bianco secco, vellutato, leggermente profumato di marino, di sole e di iodio; scendeva giù per la gola, questo vinello, con l’innocenza di un bambino quando va a fare la prima Comunione.
E’ cotta a puntino? Ancora cinque minuti. Allora, un altro gocciolino… E l’innocenza, piano piano, prendeva tinte più accese.
Ma non era che il preludio di quella che doveva essere una delle più clamorose sinfonie dell’enologia elbana e, Dio volendo, con roba fatta soltanto d’uva, di passione e di sugo di terra isolana.
Il Pumata, sarà stata la vampa del fornello, aveva il viso tifoso della Fiorentina: era tutto viola.
Eppure il vino era bianco. Mistero.
L’Ammiraglio Murzi fu tra i primi ad arrivare all’appuntamento. Lui, con l’acqua (salsa) ci ha passato una vita, ma vi posso assicurare che anche col vino non delude, pur sapendo decisamente evitare l’impellata.
Che cosa? L’impellata?!
Sissignore, l’impellata che poi sarebbe la sbronza, la sbornia, l’imbenzinata, la briaca… la scimmia e, da questa,… l’impellata o pellone che dir si voglia.
Puoi cercar finché ti pare sul vocabolario!
Anche su quello Elbano della Marilisa Diodatí Caccavelli, ma non lo trovi!
Glielo dissi all’amico Bolelli che insegna glottologia a Pisa! La Diodati ha « dato fondo » sul vocabolario manoscritto del Mellini, si è fatta anche aiutare dal prof. Preziosi, ma cosa volete che vi dica? Si vede che, ai tempi del Mellini, buonanima, nel 1899, le impellate non le prendevano.
S’imbriacavano e basta!
Il Nello Vannucci, Guardia Comunale ma anche vecchio sottuffi­ciale di Marina, vedendo il « suo » Ammiraglio in mezzo a tanta gente, non si sa mai, accorse.
Si rese conto del… fatto e, senza finir di verbalizzare una contravvenzione per divieto di sosta che aveva cominciato a scrivere sul libretto, si aggregò e il Comune perse mille lire.
Arrivarono anche Salvadore, della juventus, con tutta la famiglia, Piero Mazzei che si scordò del suo pesce per dedicarsi con passione al rettile in tegame, l’immancabile Emilio Onetto (sempre presente a tutti gli avvenimenti di rilievo), Renzo Casini sbarcato dal « Sea Ven­ture » di bandiera Norvegese… birra e latte di certo… te lo immagini con vino a volontà per spengere la fiamma dello zenzero?
Pietro Ducati, invece, perse la motonave ed arrivò in ritardo.
Però il pellone lo prese il giorno dopo ed ora è in pari nel gruppo.
Nino Oppio fu tra i primi ad arrivare, distintissimo e tutto rav­viatino, era un accordo armonico di azzurro e compitezza. Assaggiò con calma il manicaretto e poi, con la sua brava scodella, si mise col cronista e con Ciccio ad un tavolo della Marinellina. Ogni boccone era una focata che andava spenta… Accidenti, che tartaruga!
Da campionato, con tanti saluti ad Orio Vergani ed all’Accademia della Cucina Italiana.
Scusi… di cosa sa? Come, di cosa sa? Quella… la tartaruga…
Ah! Signora, dipende da dove si mangia! Vede, in Inghilterra ha sapore di turtIe, nel Veneto sa di magna cupassa, nel napoletano invece cambia ed ha il gusto della cistunia ‘e mare, in Jugoslavia è più difficile vede, perché sa di moroskornjaía!
E qui? Ah! Qui! Qui sa di tartaruga, Signora.
E fu cosi che, mentre ero distratto, il Nino Oppio mi mangiò le patate che volevo spiaccicare nel sughino ed a me non rimase che lustrare il piatto.
Così come, nell’interno del magazzino, avevano lustrato il tegame. Fu a questo punto che nel gruppo composto dall’ex pescatore Agostino Romano dell’Imperia (quello che si autosantificò sulla barca e che la fece anche iscrivere al registro navale con la dicitura « SANT’ (onorificenza) AGOSTINO (nome) ROMANO (cognome) », da suo figlio Lino, sempre allegro e dinamico, da Gigi Locatelli di Bergamo, da Sergio Paolini (mancava il Silvestri e ti allestivano Canzonissima) dal Comandante Giovannino Gentili e da diversi altri, si intrufolò sornionamente tentatore Vasco Giretti che aveva in braccio un bottiglione che sembrava un bambino di due anni.
Ragazzi, che vino! Un fialone per uso orale dell’Istituto Enologico Vigne Giretti da far girare il capo al Veronelli!
Mai bevuto un sangiovese cosi.
Benito Sacchi arrivò in ritardo e lo trovò tutto rasciugato. Peggio per lui, cosi impara ad esser puntuale.
Poi, si sa come succede.
A sentir decantare, osannare, portare al settimo cielo il vino del Giretti, l’orgoglio di un presente si risenti:
Ora dovete venire a giudicare il vino mio; anche questo è fatto d’uva: è della Pila.
E così quasi tutti si spostarono nel vicino garage del Segnini, dove la cosa che conta meno è l’automobile, che neanche noti perché l’occhio ti corre subito alle damigiane.
E così al mio amico Ugo, che credevo soltanto cantoniere ed infermiere esemplare, dovevo anche aggiungere la qualifica di agricoltore e vignaiolo insigne.
I bicchieri (una ventina) erano nascosti sotto un tovagliolo ed apparvero scintillanti, come per un gioco di prestigio, sopra un palchetto. Furono debitamente, con calma, avvínati uno per uno e cominciò la degustazione.
Del moscato e dell’aleatico, giuro, mai bevuti cosi buoni.
Freschi, profumati, scendevano come rugiada a spegnere i bollori del peperoncino di Pumata.
Chi può dire quanto se ne bevve? …
Mi feci leggere l’ora all’orologio perché forse gli occhiali mi si erano appannati.
Le nove.
Le nove?! Ma devo portar la moglie a cena da Teresina, a “La Pace “!
E corsi via.